Intervista di Marco Ranaldi

SE IL TEMPO NON AVESSE RISPOSTE.

E’ la curiosità a far inserire nel proprio essere compositore l’idea della ricerca e della novità. Per Stefano Taglietti scrivere è come vivere ovvero è nella vita il senso del creare, immaginare strutture complesse per organici vari. Questo è in quella naturale evoluzione di una idea che dagli anni ’50 in poi ha creato e poi sviluppato la libertà della scrittura musicale. L’uscire fuori dai comuni schemi, approdare a ricerche sonore, all’uso di strumentazioni insolite, fuori da un contesto “classico” è tutto alla base di cosa oggi significa essere musicista ed essere compositore. Taglietti dalla sua ha una fervida fantasia che rapportata con le radici di un passato gli ha permesso di essere soprattutto testimone e promulgatore di una culturare diffusione della musica come oggetto/soggetto di un futuro prossimo venturo. Pertanto non disclipina per specialisti ma mezzo per comunicare i segni profondi della crisi di una umanità che spesso, troppo spesso dimentica l’essenza della vita, il contatto con parentesi di varie forme e tempi necessarie per la riflessione e per il ritrovare se stessi. Curiosità/ricerca, sintesi/proposta, analisi/stimolo. Soprattutto senso della vita. In poche parole: amore e psiche.

 

Come è oggi scrivere musica?

Scrivere la musica oggi è difficile, per qualcuno persino inutile. Per me scrivere ha la stessa importanza di sempre. Necessità-urgenza-scrittura. Le modalità per fissare un suono ( scrittura tradizionale, registrazione, scrittura attraverso i suoni elettronici) devono comprendere gli aspetti della variabilità, della mutazione degli eventi di una drammaturgia. La scrittura deve prevedere anche l’improvvisazione, senza mai rinunciare alla precisione dell’istante nell’atto creativo. Abbiamo una grande libertà e dobbiamo affiancarla alla consapevolezza di essere dei privilegiati. Abbiamo a disposizione nuove tecnologie ed enormi strumenti di conoscenza rispetto al passato. Nel mio lavoro compositivo non devo render conto a nessuno, questo è certo, ma sento di avere l’obbligo dell’autenticità. Aldilà delle varie tecniche che possiamo conoscere e praticare, personalmente credo molto ai percorsi isolati. Mi piacciono i musicisti credibili, pur differenti da me, ma credibili, veri.

La tua ispirazione nasce dagli eventi esterni o da quelli interni?

La sensibilità e l’umanità interiore sono ancora elementi di profonda necessità per la musica. Tutto parte dall’esperienza che si fa ogni giorno vivendo. L’aspetto interiore rappresenta un elemento troppo importante per la musica e non può essere dimenticato o sostituito da formule e algoritmi. I sistemi di “calcolo” del suono e dei parametri non danno e non daranno nessuna garanzia o certezza per la riuscita di un pezzo. Anche recentemente, alcune scuole di composizione affidavano al calcolo il processo compositivo. Forse, da qualche parte accade ancora. I suoni si sentono prima di tutto dentro; si comincia a scrivere avendo un riferimento interiore. La musica, lo ripeto spesso, ha un potere evocativo ancora inspiegabile. Nessun’altra disciplina artistica sembra avere la stessa forza evocativa che ha la musica, ed è ancora un mistero di come riesce a farlo. Tutto questo ha a che fare, in buona parte, con l’interiorità.

E’ possibile ancora scrivere per il teatro o meglio per la scena?

Scrivere per il teatro è sempre possibile. Il teatro può svolgere ancora una funzione sociale. L’opera, in questi anni, è al centro dell’attenzione di molti autori ed è più che mai frequentata. Molti compositori sono attratti dalla musica in relazione a video, documentari musicali, immagini e installazioni. Lo si vede nei festival di musica contemporanea di tutto il mondo. Si trovano programmazioni concertistiche che prevedono interventi acusmatici con danzatori e video, autori che impiegano addirittura il loro corpo in performance interattive, recitative, includendo vocalità, gesti-suono ecc. Tutte queste cose sono indubbiamente un’emancipazione, una emanazione del linguaggio del teatro musicale. La ricerca nel campo del teatro musicale, contiene però due aspetti: da una parte la ricerca autentica, quella legata all’esigenza del carattere musicale e alla vocalità in tutte le sue forme insieme alla ricerca strumentale; dall’altra è solo un alibi per alcuni che credono che un’opera sia riuscita solo perché sostenuta da un bel soggetto. L’opera non sta in piedi soltanto per la bellezza di un libretto. Se parliamo di opera, parliamo di un complesso sistema di relazioni del suono con il gesto. L’opera è fatta anche di profonda ricerca strumentale. Lo scollamento della parte drammaturgica dalla ricerca musicale e strumentale, per la mancanza di idee sonore, è quello che, in alcuni casi, sta accadendo. Credo sia un problema quando un compositore in carriera non sappia più scrivere un pezzo per pianoforte solo, o un quartetto d’archi credibile, o che almeno superi le idee di un allievo di composizione al corso di biennio. E’ ancora possibile scrivere opere ma non bisogna perdere mai il contatto con il suono e con la ricerca strumentale. Il soggetto da solo non completa un’opera.

 Quanto di ricerca c’è nella scrittura musicale?

La ricerca è un processo di crescita senza scadenza. L’obiettivo è quello di arrivare ad una tecnica che ci permetta di comunicare ciò che abbiamo intenzione di dire. Trovare i suoni giusti per “rappresentare” qualcosa è l’obiettivo principale di ogni tecnica riuscita.

La ricerca è un cammino costante spinto verso la comunicazione, ovviamente anche la più astratta. Tutto ciò che fa l’uomo è sempre comunicativo, comprensibile dagli altri uomini. La ricerca è un aspetto fondamentale della crescita. Tutti, compositori e ascoltatori, dovrebbero sentire il bisogno di cercare “altro”. Su questa inquietudine si lega e si relaziona il dialogo delle menti e la migrazione dei pensieri. Un compositore dovrebbe avere mille facce, tutte convincenti. Questo è il senso della ricerca.

Mi parli Stefano di cosa si intende oggi per musica contemporanea?

Quando si parla di musica contemporanea si ha l’impressione che ci si riferisca alla musica colta degli anni sessanta. La musica contemporanea è un mondo molto complesso e culturalmente imprendibile. Viviamo dentro una Babele dei suoni non catalogabili. Questo che stiamo vivendo è un “nuovo mondo” che bisogna attraversare, dobbiamo munirci di strumenti e di sensibilità per coglierne la bellezza, la ricchezza e le differenze. L’uomo contemporaneo deve essere sempre più preparato ma anche semplice, di quella semplicità non stratificata da luoghi comuni, in grado di leggere le cose in modo profondo.

E’ impossibile catalogare gli aspetti e la miriade di possibilità d’ascolto che abbiamo oggi. L’ortodossia del “timbro” e del “mentalismo” dal suono soltanto pensato e graficamente tracciato, raramente mette in campo prodotti che non siano scontati e noiosi. Non si può percorrere una sola strada sempre nella stessa direzione. Lo stesso Boulez amava ripetere una frase: “Dio scrive dritto servendosi di linee curve”. Se ci limitiamo al mondo delle accademie, non abbiamo che circoscritto un piccolissimo “paese” che crede, contrariamente a ciò che accade nel mondo, di esautorare tutte le possibilità del pensiero musicale. Forse la musica contemporanea dell’oggi è quel mondo impuro e vario che attraversa una grande moltitudine di suoni: la musica elettroacustica, acusmatica, il teatro, la performance e la acoustic music, fino all’incanto della musica rinascimentale. Per me i musicisti più interessanti rimangono i contemporanei “impuri”. Alcuni autori della Popular Music indipendente sono più interessanti di molta musica accademica, che sembra essere ormai carica di troppe certezze e verità indiscutibili.

Mi piacerebbe incontrare un mondo sonoro in cui si possa ascoltare musica senza capirne la provenienza.

Quanto interesse c’è ancora verso la musica che non sia di “cassetta”?

La musica autentica e di qualità può anche diventare di cassetta. La Popular Music, definizione che in questi anni sta assumendo una proporzione enorme, che tende ad abbracciare molte forme di musica contemporanea, ci ha abituato, nel tempo, a farci amare musica non nata inizialmente come un prodotto di consumo. Pensate a Frank Zappa, ai primi Pink Floyd o ai Radiohaed, Alva Noto, il Prog, la kosmic music, il post-Rock, sono tutte realtà musicali non ordinarie, sperimentali, eppure diffusissime. Esistono sempre quei canali ufficiali sponsorizzati, che diffondono prodotti destinati e confezionati per la commercializzazione. Fortunatamente, la tecnologia, anche quella più semplice e a portata di mano, ci permette in parte di aggirare l’ostacolo delle grandi produzioni. In pratica, ognuno di noi può autoprodursi musica e diffonderla nel mondo del web, dei social, o dei canali internazionali della rete. Il problema è sempre quello: gli ascoltatori, almeno la maggior parte di essi, sono sempre influenzati dai canali ufficiali e, per pigrizia forse non sentono ancora il bisogno di “cercare” qualcosa di diverso dentro l’enorme galassia della musica indipendente. In futuro la musica meno commerciale potrebbe diventare interessante per un pubblico molto più grande. La musica più di ricerca potrebbe essere una vera scoperta e, in fondo, una buona possibilità, una via d’uscita da un mondo precostituito e artificiale della “fake” music. Proprio in questo periodo di quarantena, con i miei colleghi musicisti, abbiamo fatto delle riflessioni in questo senso; le persone sentono anche il bisogno di attraversare un percorso solitario nel quale scoprire le proprie emozioni da “paesaggi” sonori non convenzionali. In questo senso sono ottimista.

Mi parli dei tuoi maestri?

In due diversi momenti della mia vita ho avuto di Maestri eccezionali: Sylvano Bussotti all’inizio e Hans Werner Henze in un secondo momento. Nel primo caso ho appreso le possibilità che ha la musica di espandersi in tutte le discipline e in tutte le direzioni. Una grande forza culturale che andava ricercata in tutti gli ambiti delle arti: dall’arte visiva al cinema, dal teatro alla poesia ecc. In pratica la musica non è solo dentro la musica. Parafrasando Carmelo Bene che diceva “non si può fare teatro con il teatro”, diremo lo stesso per la musica. Nel secondo caso, del grande Maestro tedesco mi rimangono, oltre agli aspetti umani, gli insegnamenti fondamentali del sapere come si muove ogni suono, del modo vero e artigianale della solidità del comporre, in modo concreto e senza retorica, sempre in ascolto, con umiltà e sicurezza, con la consapevolezza e la necessità di una propria identità e di un proprio ruolo. Il grande insegnamento però è stato anche il palco. Ho suonato il pianoforte per anni in progetti di mia musica e di improvvisazione. Ho imparato tantissimo suonando con il leggendario Dom Um Romao (il primo percussionista dei Weather Report) e con Karl Potter, Evan Parker, Giancarlo Schiaffini, Walter Prati, Gianni Trovalusci, Geoff Warren. Il palco è un altro grande insostituibile maestro.

  Come è definibile oggi il suono?

Difficile dirlo. Il suono è come la goccia di sangue di un uomo: contiene tutte le informazioni, dal dna, all’essenza cellulare. Il suono è sempre qualcosa di più di un solo suono, contiene la chimica di tutto. Definire il suono oggi è come definire un universo. Il timbro, lo spazio, la multidisciplinarietà, la compenetrazione degli elementi armonici e inarmonici. Il suono in sé, è la rivelazione di una identità. Il sound è, per esempio, un parametro fondamentale del riconoscimento di un chitarrista, oppure di un gruppo o addirittura di un genere musicale. La definizione più esatta di sound contemporaneo che desidero, e che mi piace ripetere sempre, è quello contenuto nella profetica intuizione musicale di Miles Davis: Bitches Brew, il “brodo primordiale” in cui convivono tutti gli elementi culturali, ognuno vitale, ognuno portatore di vita.

Cosa è per te questo tempo?

E’ il tempo della riflessione e dell’ascolto. E’ anche il tempo che la natura ci ha dato per permetterci di ripensare ai nostri errori; è la frenata prima di cadere nel precipizio, dobbiamo cambiare. Ciò che era prima non può più essere in futuro, dobbiamo rendercene conto. Abbiamo una grande occasione e sprecarla sarebbe un disastro. Mettere al centro il danaro, il profitto, prima dell’ambiente, prima della fauna selvatica e della flora, lo stiamo vedendo, è un suicidio.

Il tuo desiderio di rinascita?

Enorme. Non ho mai smesso di lavorare, ho sempre pensato al dopo covid 19. Questo tempo mi ha permesso di lavorare in maniera diversa. Senza committenti e senza musicisti, e proprio nel tempo della quarantena, ho finito un lavoro discografico dedicato interamente alla psichedelia. Si chiama Sacred, Psychedelic Theory, 57 minuti di musica elettronica in 7 pezzi.

Si tornerà a suonare assieme?

Certamente. Il concerto dal vivo è insostituibile. L’emozione di vedere qualcuno che suona davanti a te è irrinunciabile. Credo che si tornerà a suonare insieme, magari con le dovute distanze, con qualche accorgimento per la sicurezza, ma si tornerà a suonare insieme

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